martedì 24 gennaio 2012

Il Giardino delle Delizie (Garden of Eden) , Hieronymus Bosch, 1490

Il Giardino delle delizie (o Il Millennio) è un trittico ad olio su tavola di 220x389cm conservato attualmente nel  Museo del Prado a Madrid.
Di datazione incerta, è ritenuto il capolavoro e l'opera più ambiziosa dell'artista.
In nessun altro lavoro Bosch raggiunse un tale livello di complessità, sia per i significati simbolici che per la vivida immaginazione espositiva. L'opera rappresenta numerose scene bibliche e ha probabilmente lo scopo di descrivere la storia dell'umanità attraverso la dottrina Cristiana medievale.
È formata da un pannello centrale di forma pressoché quadrata al quale sono accostate due ali rettangolari richiudibili su di esso; una volta piegate mostrano una rappresentazione della Terra durante la Creazione.
Le tre scene del trittico aperto sono probabilmente da analizzare in ordine cronologico da sinistra verso destra, per quanto non vi sia la certezza di questa lettura. Il pannello di sinistra rappresenta Dio quale perno dell'incontro tra  Adamo ed Eva, quello centrale è una vasta veduta fantastica di figure nude, animali immaginari, frutti di grandi dimensioni e formazioni rocciose; quello di destra è invece una visione dell'Inferno e rappresenta i tormenti della dannazione..
Gli studiosi hanno spesso interpretato l'opera come un ammonimento agli uomini per quanto riguarda i pericoli delle tentazioni della vita; nonostante ciò, l'intricato mescolarsi di figure simboliche, in particolare nel pannello centrale, ha portato nel corso dei secoli a numerose e differenti interpretazioni e ancora ci si divide tra chi crede che il pannello centrale contenga un insegnamento morale per l'uomo e chi lo considera una veduta del paradiso perduto.
Fonte : http://it.wikipedia.org/wiki/Giardino_delle_delizie

lunedì 23 gennaio 2012

Le Rovine Circolari. J.L.Borges

Le rovine circolari
Di Jorge Luis Borges

"And if he let off dreaming about you..." Through the Looking-Glass, IV

Nessuno lo vide sbarcare nella notte unanime, nessuno vide la canoa di bambù incagliarsi nel fango sacro; ma pochi giorni dopo, nessuno ignorava che l'uomo taciturno veniva dal Sud e che la sua patria era uno degli infiniti villaggi che sono a monte del fiume, nel fianco violento della montagna, dove l'idioma Zend non è contaminato dal greco, e dove la lebbra è infrequente. L'uomo grigio baciò il fango, montò sulla riva senza scostare (probabilmente senza sentire) i rovi che gli laceravano le carni, e si trasse melmoso e insanguinato fino al recinto circolare che corona una tigre o cavallo di pietra, che fu una volta del colore del fuoco ed è ora di quello della cenere. Questa rotonda è ciò che resta d'un tempio che antichi incendi divorarono, cui profanò la vegetazione delle paludi, e il cui dio non riceve più onori dagli uomini. Lo straniero si stese ai piedi della statua. Si svegliò a giorno fatto. Constatò senza stupore che le ferite s'erano cicatrizzate; chiuse gli occhi pallidi e dormì, non per stanchezza della carne ma per determinazione della volontà. Sapeva che questo tempio era il luogo che conveniva al suo invincibile proposito; sapeva che gli alberi incessanti non erano riusciti a soffocare, più a valle, le rovine d'un altro tempio propizio, anch'esso di dèi incendiati e morti; sapeva che il suo obbligo immediato era il sonno. Verso la mezzanotte lo svegliò il grido inconsolabile d'un uccello. Orme di piedi nudi, alcune frutta e un bacile l'informarono che la gente del luogo aveva spiato con rispetto il suo sonno e sollecitava la sua protezione, o temeva la sua magia. Sentì il freddo della paura e cercò nella muraglia dilapidata una nicchia sepolcrale, si coprì con foglie sconosciute.

Il proposito che lo guidava non era impossibile, anche se soprannaturale. Voleva sognare un uomo: voleva sognarlo con minuziosa interezza e imporlo alla realtà. Questo progetto magico aveva esaurito l'intero spazio della sua anima; se alcuno gli avesse chiesto il suo nome, o un tratto qualunque della sua vita anteriore, non avrebbe saputo rispondere. Gli conveniva il tempio disabitato e rotto, perché era un minimo di mondo visibile; anche gli conveniva la vicinanza dei contadini, perché s'incaricavano di sovvenire ai suoi bisogni frugali. Il riso e le frutta del loro tributo erano pascolo sufficiente al suo corpo, consacrato all'unico compito di dormire e di sognare.

Al principio i sogni furono caotici; poco dopo, di natura dialettica. Lo straniero si sognava nel centro di un anfiteatro circolare che era in qualche modo il tempio incendiato; nubi di alunni taciturni ne appesantivano i gradini; i volti degli ultimi si perdevano a molti secoli di distanza e ad un'altezza stellare, ma erano del tutto precisi. L'uomo dettava lezioni d'anatomia, di cosmografia, di magia: quei volti ascoltavano con ansietà e procuravano di rispondere con senno, come se indovinassero l'importanza di quell'esame, che avrebbe riscattato uno di loro dalla condizione di vana apparenza, e l'avrebbe interpolato nel mondo reale. Nel sogno o più tardi, da sveglio, l'uomo considerava le risposte dei suoi fantasmi, non si lasciava ingannare dagli impostori, indovinava in certe perplessità un'intelligenza crescente. Cercava un'anima che meritasse di partecipare all'universo.

Dopo nove o dieci notti comprese che non poteva sperare in quegli alunni che accettavano passivamente la sua dottrina, ma sì in quelli che arrischiavano, a volte, una contraddizione ragionevole. I primi, sebbene degni di amore e di buon affetto, non potevano aspirare alla condizione di individuo; gli altri presi stavano un poco di più. Un pomeriggio (ormai anche i pomeriggi erano tributari del sonno, ormai non vegliava che un paio d'ore al mattino) congedò per sempre il vasto collegio illusorio e restò con un solo alunno. Era un ragazzo taciturno, melanconico, discolo qualche volta, dai tratti affilati che ripetevano quelli del suo sognatore. La brusca eliminazione dei suoi condiscepoli non lo sconcertò troppo a lungo; dopo poche lezioni, i suoi progressi già meravigliavano il maestro. Ma ecco, sopravvenne la catastrofe. Un giorno, l'uomo emerse dal sonno come da un deserto viscoso, guardò la luce vana d'un tramonto che prese per un'aurora, comprese di non aver sognato. Tutta quella notte e tutto il giorno seguente la lucidità intollerabile dell'insonnia s'abbatté su di lui. Volle esplorare la selva, estenuarsi; ma poté appena, tra la cicuta, dormire pochi frammenti di sonno debole, fugacemente trasversati da visioni di tipo rudimentale: inservibili. Volle convocare il collegio, ma aveva appena articolato poche parole d'esortazione che quello si deformò, si cancellò. Nella veglia quasi perpetua, lacrime di rabbia bruciavano i suoi vecchi occhi.

Comprese che l'impegno di modellare la materia incoerente e vertiginosa di cui si compongono i sogni è il più arduo che possa assumere un uomo, anche se penetri tutti gli enigmi dell'ordine superiore e dell'inferiore: molto più arduo che tessere una corda di sabbia o monetare il vento senza volto. Comprese che un insuccesso iniziale era inevitabile. Giurò di dimenticare l'enorme allucinazione che l'aveva sviato al principio, e cercò un altro metodo di lavoro. Prima di applicarlo, dedicò un mese al recupero delle forze che aveva sprecato nel delirio. Non premeditò più di sognare, e quasi immediatamente gli riuscì di dormire per un tratto ragionevole del giorno. Le rare volte che sognò durante questo periodo, non fece attenzione ai suoi sogni. Per riprendere l'impresa, aspettò che il disco della luna fosse perfetto. allora, di sera, si purificò nelle acque del fiume, adorò gli dèi planetari, pronunciò le sillabe lecite d'un nome poderoso e dormì. Quasi subito, sognò un cuore che palpitava.

Lo sognò attivo, caldo, segreto, della grandezza d'un pugno serrato, color granata nella penombra d'un corpo umano ancora senza volto né sesso; con minuzioso amore lo sognò, durante quattordici lucide notti. Ogni notte lo percepiva con maggiore evidenza. Non lo toccava: si limitava ad esserne testimone, a osservarlo, talvolta a correggerlo con lo sguardo. Lo percepiva, lo viveva, da molte distanze e sotto molti angoli. La quattordicesima notte sfiorò con l'indice l'arteria polmonare e poi tutto il cuore, di fuori e di dentro. L'esame lo soddisfece. Deliberatamente non sognò durante tutta una notte; poi riprese il cuore, invocò il nome di un pianeta e passò alla visione d'un altro degli organi principali. In meno d'un anno giunse allo scheletro, alle palpebre. La capigliatura innumerevole fu forse il compito più difficile. Sognò un uomo intero, un giovane, che però non si levava, né parlava, né poteva aprire gli occhi. Per notti e notti continuò a sognarlo addormentato.

Nelle cosmogonie gnostiche, i demiurghi impastano un rosso Adamo che non riesce ad alzarsi in piedi; così inabile, rozzo ed elementare come quest'Adamo di polvere, era l'Adamo di sogno che le notti del mago avevano fabbricato. Una sera, l'uomo fu quasi per distruggere tutta l'opera, ma si pentì. (Più gli sarebbe valso distruggerla). Fatto ogni voto ai numi della terra e del fiume, si gettò ai piedi dell'effigie che era forse una tigre o forse un cavallo, e implorò il suo sconosciuto soccorso. Sul crepuscolo dello stesso giorno, sognò questa statua. La sognò viva, tremula; non era un atroce bastardo di cavallo e di tigre, ma queste due veementi creature ad un tempo, e anche un toro, una rosa, una tempesta. Questo molteplice iddio gli rivelò che il suo nome era Fuoco, che in quel tempio circolare (e in altri eguali) gli erano stati offerti i sacrifici e reso il culto, e che magicamente avrebbe animato il fantasma sognato, in modo che tutte le creature, eccetto il Fuoco stesso e il creatore, l'avrebbero creduto un uomo di carne e di ossa. Gli ordinò di inviarlo, una volta istruitolo nei riti, nell'altro tempio in rovina le cui torri sussistevano più a valle, affinché una voce tornasse a glorificare il fuoco in quell'edificio deserto. Nel sonno dell'uomo che lo sognava, il sognato si svegliò.

Il mago eseguì gli ordini. Dedicò qualche tempo (e furono finalmente due anni) a scoprirgli gli arcani dell'universo e del culto del fuoco. Nell'intimo, gli doleva di separarsi da lui. Col pretesto della necessità pedagogica, allungava ogni giorno le ore dedicate al sonno. Rifece anche l'omero destro, forse mal riuscito. A volte, l'inquietava un'impressione che tutto quello fosse già avvenuto... In complesso, i suoi giorni erano felici; chiudendo gli occhi pensava: "Ora starò con mio figlio". O, più di rado: "Il figlio che ho generato m'aspetta, e non esisterà se non vado".

Gradualmente, lo venne avvezzando alla realtà. Una volta gli comandò di imbandierare una cima lontana. Il giorno dopo, sul monte, fiammeggiava la bandiera. Tentò altri esperimenti di questo genere, ogni volta più audaci. Comprese con una certa amarezza che suo figlio era pronto per nascere. Quella stessa notte, per la prima volta, lo baciò, e lo inviò all'altro tempio, le cui vestigia biancheggiavano a valle, a molte leghe di selva inestricabile e di acquitrini. Prima (perché non sapesse mai che era un fantasma, perché si credesse un uomo come gli altri) gl'infuse l'oblivio totale dei suoi anni di apprendistato.

La sua vittoria e la sua pace non furono senza melanconia. All'alba e al tramonto si prosternava dinanzi alla figura di pietra, pensando forse che il suo figlio irreale stesse eseguendo riti identici, in altre rovine circolari, più a valle; la notte non sognava, o sognava come gli altri uomini. Percepiva un poco impalliditi i suoni e le forme del'universo: il figlio assente si nutriva di queste diminuzioni della sua anima. Lo scopo della sua vita era raggiunto; continuava a vivere in una specie d'estasi. Dopo un certo tempo che alcuni narratori della sua storia preferiscono di computare in anni, altri in lustri, lo svegliarono a mezzanotte due rematori; non ne vide i volti, ma gli parlarono di un uomo magico, in un tempio del Nord, capace di camminare nel fuoco senza bruciarsi. Il mago ricordò bruscamente le parole del dio. Ricordò che di tutte le creature che compongono l'orbe, il fuoco era l'unica a sapere che suo figlio era un fantasma. Questo ricordo, tranquillante al principio, finì per tormentarlo. Temette che suo figlio meditasse su questo strano privilegio e scoprisse in qualche modo la sua condizione di mero simulacro. Non essere un uomo, essere la proiezione del sogno di un altr'uomo: che umiliazione incomparabile, che vertigine! A ogni padre interessano i figli che ha procreato (che ha permesso) in una mera confusione o felicità; è naturale che il mago temesse per l'avvenire di quel figlio, pensato viscere per viscere e lineamento per lineamento, in mille e una notte segrete.

Il termine del suo rimuginare fu brusco, ma lo precedettero alcuni segni. Primo (dopo una lunga siccità) una remota nube sopra un colle, leggera come un uccello; poi, verso sud, un cielo rosa come la gengiva del leopardo; poi le fumate, che arrugginirono il metallo delle notti; infine la fuga impazzita delle bestie. Poiché si ripete ciò che era già accaduto nei secoli. Le rovine del santuario del dio del fuoco furono distrutte dal fuoco. In un'alba senza uccelli il mago vide avventarsi contro le mura l'incendio concentrico. Pensò, un istante, di rifugiarsi nell'acqua; ma comprese che la morte veniva a coronare la sua vecchiezza e ad assolverlo dalle sue fatiche. Andò incontro ai gironi di fuoco: che non morsero la sua carne, che lo accarezzarono e inondarono senza calore e senza combustione. Con sollievo, con umiliazione, con terrore, comprese che era anche lui una parvenza, che un altro stava sognandolo.

venerdì 20 gennaio 2012

Triumph of the Death, Pieter Bruegel il Vecchio, 1562


Olio Su tela, 117x162cm, Madrid, Museo del Prado
Il dipinto di Pieter Bruegel Il trionfo della morte (1562) è senza dubbio il più ricco di particolari tra i suoi quadri a figura piccola.
La scelta del soggetto de Il trionfo, un paesaggio spettrale, tra la moltitudine di figure in lotta tra loro  impugnando una falce, moltiplicata all’infinito, quasi toccasse uno scheletro ad ogni uomo presente, si riallaccia alla tradizione della “Danza macabra”: un allegoria figurale, presente in tutta Europa a partire dal Trecento, in cui la morte pare intraprendere una vera e propria danza con le malcapitate vittime Il motivo, letterario e iconografico, della Danza macabra, tema franco-germanico, subisce un mutamento importante grazie alla contaminazione con il tema tutto italiano del “Trionfo della morte”,
 uomini o scheletri che siano  in modo volutamente confuso e ammassato, dove la morte scheletrica cavalca un ronzino pelle e ossa, 
tema da cui lo stesso dipinto di Bruegel prende il nome.
 Questa morte scheletrica diviene ben presto cavaliere di un consunto ronzino, munita di falce (Italia) o di arco e dardi (Francia e Germania).
Le rappresentazioni pittoriche del Trionfo della morte di Pisa, o di Palazzo Sclafani a Palermo, erano forse note a Bruegel, che era stato in Italia dieci anni prima della realizzazione del suo Trionfo.
Bruegel appare quindi non recepire le prime istanze pittoriche volte all’individuo, tipiche degli altri artisti fiamminghi, si muove ancora in una dimensione collettiva, che gli orrori dell’epoca sembravano quasi sottolineare.
Proprio nella percezione così dolorosa e delirante degli avvenimenti che accomunano sta la forza evocatrice selvaggia de il trionfo della morte.

Portafoglio

Foto macro con Canon S90

mercoledì 18 gennaio 2012

Calma

Stai calmo...prima sentiamo cos'hanno detto a Bill..

La Rosa di Paracelso, Jorge Luis Borges



La Rosa di Paracelso

Nel suo laboratorio, che comprendeva le due stanze dello scantinato, Paracelso chiese al suo Dio,
al suo indeterminato Dio, a qualunque Dio, di inviargli un discepolo.
Imbruniva. Il magro fuoco del camino proiettava ombre irregolari.
Alzarsi per accendere la lanterna di ferro avrebbe richiesto uno sforzo eccessivo.
Paracelso, distratto dalla fatica, dimenticò la sua preghiera.
La notte aveva cancellato l’athanor e i polverosi alambicchi quando bussarono alla porta.
Insonnolito, l’uomo si alzò, salí faticosamente la breve scala a chiocciola e socchiuse un battente.

Uno sconosciuto entrò. Anch’egli era molto stanco.
Paracelso gli indicò una panca; l’altro sedette e attese.
Per un certo tempo non scambiarono tra loro nemmeno una parola.

Il maestro fu il primo a parlare.
“Ricordo volti d’Occidente e volti d’Oriente”, disse, non senza una certa enfasi.
“Non ricordo il tuo. Chi sei tu e che vuoi da me?”

“Il mio nome non ha importanza”, replicò l’altro.
“Ho camminato tre giorni e tre notti per entrare in casa tua.
Voglio diventare tuo discepolo. Ti ho portato tutti i miei beni.”
Tirò fuori una borsa e la rovesciò sulla tavola. Le monete erano molte, e d’oro.
Lo fece con la mano destra.

Paracelso, per accendere la lanterna, aveva dovuto voltargli le spalle.
Quando tornò, notò nella sua mano sinistra una rosa. La rosa lo inquietò.
Si chinò, giunse le estremità delle dita, e disse:
“Tu mi credi capace di elaborare la pietra che trasmuta gli elementi in oro e mi offri oro.
Non è l’oro ciò che cerco, e se è l’oro che ti interessa, tu non sarai mai mio discepolo.”

“L’oro non mi interessa”, rispose l’altro.
“Queste monete non sono altro che una prova del mio desiderio di apprendere.
Voglio che tu mi insegni l’Arte. Voglio percorrere al tuo fianco la via che conduce alla Pietra.”

Paracelso disse lentamente:
“La via è la Pietra. Il punto di partenza è la Pietra.
Se non comprendi queste parole, non hai ancora cominciato a comprendere.
Ogni passo che farai è la meta.”

L’altro lo guardò con aria diffidente. Disse, con voce chiara:
“Ma, esiste una meta?”

Paracelso si mise a ridere.
“I miei detrattori, che non sono meno numerosi che stupidi, sostengono il contrario,
e mi accusano di essere un impostore.
Non do loro ragione, ma non è impossibile che io sia un illuso. So che esiste una via.”

Vi fu una pausa, e l’altro disse:
“Sono pronto a percorrerla con te, anche se dovessimo viaggiare per molti anni.
Lasciami attraversare il deserto. Lasciami intravedere almeno da lontano la terra promessa,

anche se gli astri me ne vieteranno l’accesso.
Ma prima di intraprendere il viaggio, io voglio una prova.”

“Quando?” disse Paracelso, con inquietudine.

“Subito”, rispose il discepolo con brusca determinazione.

Avevano iniziato la conversazione in latino, ora parlavano in tedesco.

Il giovane levò in alto la rosa.
“Affermano”, disse, “che tu puoi bruciare una rosa e farla rinascere dalle ceneri,

per opera della tua arte. Lascia che io sia testimone di questo prodigio.
Ecco ciò che ti chiedo; poi la mia vita sarà tua.”

“Sei molto credulo”, disse il maestro. “Non so che farmene della credulità; esigo la fede.”

L’altro insistette.
“È proprio perché non sono credulo che voglio vedere coi miei occhi l’annientamento
e la resurrezione della rosa.”

Paracelso l’aveva presa in mano, e parlando giocherellava con essa.
“Sei credulo”, disse. “Tu dici che io sono capace di distruggerla?”

“Nessuno è incapace di distruggerla”, rispose il discepolo.

“Ti sbagli. Credi forse che qualcosa possa esser reso al nulla?
Credi che il primo Adamo nel Paradiso abbia potuto distruggere un solo fiore, un solo filo d’erba?”

“Non siamo nel Paradiso”, disse ostinato il giovane; “qui, sotto la luna, tutto è mortale.”

Paracelso si era alzato in piedi.
“E in quale altro luogo siamo? Credi che la divinità possa creare un luogo che non sia il Paradiso?
Credi che la caduta sia altro dall’ignorare che siamo nel Paradiso?”

“Una rosa può bruciare”, disse il discepolo in tono di sfida.

“V’è ancora del fuoco nel camino”, rispose Paracelso.
Se tu gettassi questa rosa fra le braci, crederesti che le fiamme l’abbiano consumata,
e che sia la cenere a essere reale.
Io ti dico che la rosa è eterna e che solo la sua apparenza può cambiare.
Mi basterebbe una parola perché tu la potessi vedere di nuovo.”

“Una parola?” disse stupefatto il discepolo.
“L’athanor è spento, gli alambicchi sono coperti di polvere. Che farai per farla rinascere?”

Paracelso lo guardò con tristezza.
“L’athanor è spento”, ripeté, “e gli alambicchi sono coperti di polvere.
In questo tratto della mia lunga giornata uso altri strumenti.”

“Non oso domandare quali”, disse l’altro con malizia o con umiltà.

“Parlo di quello che usò la divinità per creare il cielo e la terra e l’invisibile Paradiso
in cui ci troviamo e che ci è nascosto dal peccato originale.
Parlo della Parola che ci insegna la scienza della Cabala.”

Il discepolo disse freddamente:
"Ti chiedo la grazia di mostrarmi la scomparsa e la ricomparsa della rosa.
Poco m’importa che tu operi per mezzo del Verbo o degli alambicchi.”

Paracelso rifletté. Infine disse:
“Se lo facessi, tu diresti che si tratta di un’apparenza imposta ai tuoi occhi dalla magia.
Il prodigio non ti donerà la fede che cerchi. Dunque lascia stare la rosa.”

Sempre diffidente, il giovane lo guardò.


Il maestro alzò la voce e gli disse:
“E inoltre, chi sei tu per introdurti nella dimora di un maestro ed esigere da lui un prodigio?
Che hai fatto per meritare simile dono?”

L’altro replicò, tremando:
“So bene che non ho fatto nulla.

Ti chiedo, in nome dei molti anni in cui studierò alla tua ombra, di lasciarmi vedere la cenere e poi la rosa. Non ti chiederò altro. Crederò alla testimonianza dei miei occhi.”
Bruscamente, afferrò la rosa rossa che Paracelso aveva lasciato sul leggìo e la gettò tra le fiamme.
Il colore si perse e rimase solo un po’ di cenere.
Per un istante infinito egli attese le parole e il miracolo.

Paracelso era rimasto impassibile. Disse con strana semplicità:
“Tutti i medici e tutti gli speziali di Basilea affermano che io sono un mistificatore.
Forse essi sono nel vero. Qui riposa la cenere che fu rosa e che non lo sarà.”

Il giovane si sentì pieno di vergogna.
Paracelso era un ciarlatano o un semplice visionario, e lui, un intruso, aveva varcato la sua porta

e ora lo costringeva a confessare che le sue famose arti magiche erano vane.
Si inginocchiò, e disse:
“Ho agito imperdonabilmente. Mi è mancata la fede che il Signore esigeva dai credenti.
Lasciami ancora guardare la cenere. Tornerò quando sarò più forte e sarò tuo discepolo
e in fondo al cammino vedrò la rosa.”
Parlava con passione autentica, ma quella passione era la pietà che gli ispirava il vecchio maestro,
tanto venerato, tanto attaccato, tanto insigne e perciò tanto vuoto.

Chi era lui, Johannes Grisebach,
per scoprire con mano sacrilega che dietro la maschera non c’era nessuno?
Lasciare le monete d’oro sarebbe stata un’elemosina. Le riprese uscendo.

Paracelso l’accompagnò ai piedi della scala e gli disse che sarebbe sempre stato il benvenuto.
Entrambi sapevano che non si sarebbero rivisti mai più.
Paracelso rimase solo.
Prima di spegnere la lanterna e di sedersi nella poltrona consunta,
raccolse nell’incavo della mano il piccolo pugno di cenere e disse una parola a bassa voce.

La rosa risorse.


lunedì 16 gennaio 2012

Il Filosofo Meditatore, Rembrandt, 1630

Graffiti

Giordania, Deserto del Wadi Rum detto anche Terra della Luna, 1998,
 foto analogica con Nikon F70 digitalizzata in seguito.
Si tratta probabilmente di incisioni rupestri in alfabeto Tamudico.

giovedì 12 gennaio 2012

La Biblioteca di Babele, Jorge Luis Borges

L'universo (che altri chiamano la Biblioteca) si compone d'un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo, bordati di basse ringhiere.
Da qualsiasi esagono si vedono i piani superiori e inferiori, interminabilmente.
La distribuzione degli oggetti nelle gallerie è Invariabile.
Venticinque vasti scaffali, in ragione di cinque per lato, coprono tutti i lati meno uno; la loro altezza, che è quella stessa di ciascun piano, non supera di molto quella d'una biblioteca normale.
Il lato libero dà su un angusto corridoio che porta a un'altra galleria, identica alla prima e a tutte. A destra e a sinistra del corridoio vi sono due gabinetti minuscoli. Uno permette di dormire in piedi, l'altro di soddisfare le necessità fecali.
Di qui si passa alla scala a spirale, che s'inabissa e s'innalza nel remoto. Nel corridoio v'è uno specchio, che fedelmente duplica le apparenze. Gli uomini sogliono inferire da questo specchio che la Biblioteca Non È infinita (se realmente fosse tale, perché questa duplicazione illusoria?); io preferisco sognare che queste superfici argentate figurino e promettano l'infinito...
La luce procede da frutti sferici che hanno il nome di lampade. Ve ne sono due per esagono, su una trasversale. La luce che emettono È insufficiente, incessante.
Come tutti gli uomini della Biblioteca, in Gioventù ho viaggiato; ho peregrinato in cerca di un libro, forse del catalogo dei cataloghi; ora che i miei occhi quasi non possono decifrare ciò che scrivo, mi preparo a morire a poche leghe dall'esagono in cui nacqui. Morto, non mancheranno mani pietose che mi gettino fuori dalla ringhiera; mia sepoltura sarà l'aria insondabile: il mio corpo affonderà e si corromperà nel vento generato dalla caduta che è infinita. Io affermo che la Biblioteca È interminabile. Gli idealisti argomentano che le sale esagonali sono una forma necessaria dello spazio assoluto o, per lo meno, della nostra intuizione dello spazio. Ragionano che è inconcepibile una sala triangolare o pentagonale. (I mistici pretendono di avere nell'estasi, la rivelazione di una camera circolare con un grande libro circolare dalla costola continua, che fa il giro completo delle pareti; ma la loro testimonianza È sospetta; le loro parole oscure. Questo libro ciclico È Dio.)
Mi basti, per ora, ripetere la sentenza classica: "La Biblioteca È una sfera il cui centro esatto È un qualsiasi esagono, e la cui circonferenza è inaccessibile".
A ciascuna parete di ciascun esagono corrispondono cinque scaffali; ciascuno scaffale contiene trentadue libri di formato uniforme; ciascun libro È di quattrocentodieci pagine; ciascuna pagina di quaranta righe; ciascuna riga di quaranta lettere di colore nero. Vi sono anche delle lettere sulla costola di ciascun libro; non, però, che indichino o prefigurino ciò che diranno le pagine. So che questa incoerenza un tempo mi parve misteriosa.

Prima d'accennare alla soluzione (la cui scoperta, a prescindere dalle sue tragiche proiezioni, È forse il fatto capitale della storia) voglio rammentare alcuni assiomi.

Primo: la Biblioteca esiste AB Aeterno. Di questa verità , il cui corollario immediato È l'eternità futura del mondo, nessuna mente ragionevole può dubitare. L'uomo, questo imperfetto bibliotecario, può essere opera del caso o di demiurghi malevoli; l'universo, con la sua elegante dotazione di scaffali, di tomi enigmatici, di infaticabili scale per il viaggiatore e di latrine per il bibliotecario seduto, non può che essere l'opera di un dio. Per avvertire la distanza che c'è tra il divino e l'umano, basta paragonare questi rozzi, tremuli simboli che la mia fallace mano sgorbia sulla copertina di un libro, con le lettere organiche dell'interno del libro: puntuali, delicate, nerissime, inimitabilmente simmetriche.

Secondo: il numero dei simboli ortografici e di venticinque. Questa costatazione permise, or sono tre secoli, di formulare una teoria generale della Biblioteca e di risolvere soddisfacentemente il problema che nessuna congettura aveva permesso di decifrare: la natura informe e caotica di quasi tutti i libri.
Uno di questi, che mio padre rinvenne nell'esagono del circuito 15-98, constava delle lettere MCV, perversamente ripetute dalla prima all'ultima riga. Un altro (molto consultato in questa zona) È un mero labirinto di lettere, ma l'ultima pagina dice: Oh tempo le tue piramidi . È ormai risaputo: per una riga ragionevole, vi sono leghe di insensate cacofonie, di farragini verbali e di incoerenze (so d'una regione barbarica i cui bibliotecari ripudiano la superstiziosa e vana abitudine di cercare un senso nei libri, e la paragonano a quella di cercare un senso nei sogni o nelle linee caotiche della mano... Ammetto che gli inventori della scrittura imitarono i venticinque simboli naturali, ma sostengono che questa applicazione è casuale, e che i libri non significano nulla di per sé. Questa affermazione, lo vedremo, non È del tutto erronea). Per molto tempo si credette che questi libri impenetrabili, corrispondessero a lingue preterite o remote. Ora, È vero che gli uomini più antichi, i primi bibliotecari, parlavano una lingua molto diversa da quella che noi parliamo oggi; È vero che nove miglia a destra la lingua È già dialettale e novanta piani sopra È incomprensibile. Tutto questo, lo ripeto, È vero, ma quattrocentodieci pagine di inalterabili MCV non possono corrispondere ad alcun idioma per dialettale o rudimentale che sia. Alcuni insinuarono che ogni lettera poteva influire sulla seguente, e che il valore di MCV nella terza riga della pagina Settantuno non era lo stesso di quella che la medesima serie poteva avere in altra riga d'altra pagina; ma questa vaga tesi non prosperò. Altri pensarono a una crittografia; quest'ipotesi È stata universalmente accettata, ma non nel senso in cui la formularono i suoi inventori. Cinquecento anni or sono, il capo di un esagono superiore trovò un libro confuso come gli altri, ma in cui v'erano quasi due pagine di scrittura omogenea, verosimilmente leggibile. Mostrò la sua scoperta a un decifratore ambulante, e questo gli disse che erano scritte in portoghese, altri gli dissero che erano scritte in yiddish. Poté infine stabilirsi, dopo ricerche che durarono quasi un secolo, che si trattava d'un dialetto samoiedo-lituano con inflessioni di arabo classico. Si decifrò anche il contenuto: nozioni di analisi combinatoria, illustrate con esempi di permutazioni a ripetizione illimitata. Questi esempi permisero a un bibliotecario di genio di scoprire la legge fondamentale della Biblioteca.

Questo pensatore osservò che tutti i libri, per diversi che fossero, constavano di elementi uguali: lo spazio, il punto, la virgola, le ventidue lettere dell'alfabeto. Stabilì inoltre, un fatto che tutti i viaggiatori hanno confermato: non vi sono nella Biblioteca due soli libri identici. Da queste premesse incontrovertibili dedusse che la Biblioteca È Totale, e che i suoi scaffali registrano tutte le possibili combinazioni dei venticinque simboli ortografici (numero anche se vastissimo, non infinito) cioè tutto ciò che è dato di esprimere in tutte le lingue. Tutto: la storia minuziosa dell'avvenire, le autobiografie degli arcangeli, il catalogo fedele della biblioteca, migliaia e migliaia di cataloghi falsi, la dimostrazione delle falsità  di questi cataloghi, la dimostrazione della falsità  del catalogo fedele, l'evangelo gnostico di Basilide, il commento del commento di questo vangelo, il resoconto veridico della TUA morte, la traduzione di ogni libro in tutte le lingue, le interpolazioni di ogni libro in tutti i libri. Quando si proclamò che la Biblioteca comprendeva tutti i libri, la prima impressione fu di straordinaria felicità . Tutti gli uomini si sentirono padroni di un tesoro intatto e fedele. Non v'era problema personale o mondiale la cui eloquente soluzione non esistesse: in qualche esagono. L'universo era Giustificato, l'universo attingeva bruscamente le dimensioni illimitate della speranza. A quel tempo si parlò molto delle Vendicazioni: libri di apologia e di profezia che giustificavano per sempre gli atti di ciascun uomo dell'universo e serbavano arcani prodigiosi per il suo futuro. Migliaia di ambiziosi abbandonarono il dolce esagono natale e si lanciarono su per le scale, spinti dal vano proposito di trovare la propria Vendicazione. Questi pellegrini s'accapigliavano negli stretti corridoi, proferivano oscure minacce, si strangolavano per le scale divine, scagliavano libri ingannevoli nei pozzi senza fondo, vi morivano essi stessi, precipitatevi dagli uomini di regioni remote. Molti impazzirono. Le Vendicazioni esistono davvero (io ne ho viste due, che si riferiscono a persone del venire, o forse immaginarie), ma quei ricercatori dimenticavano che la possibilità  che un uomo trovi la sua, o qualche perfida variante della sua, È sostanzialmente zero. Anche si sperò, a quel tempo, nella spiegazione dei misteri fondamentali dell'umanità : l'origini della Biblioteca e del tempo. È verosimile che di questi gravi misteri possa darsi una spiegazione in parole: se il linguaggio dei filosofi non basta, la multiforme Biblioteca avrà  prodotto essa stessa l'inaudito idioma necessario, e i vocabolari e le grammatiche di questa lingua. Già  quattro secoli gli uomini affaticarono gli esagoni...
Vi sono cercatori ufficiali, inquisitori. Li ho visti nell'esercizio delle loro funzioni: arrivano sempre scoraggiati; parlano di scale senza un gradino, dove per poco non s'ammazzarono; parlano di scale e di gallerie con il bibliotecario; ogni tanto, prendono il libro più vicino e lo sfogliano in cerca di parole infami. Nessuno, visibilmente, s'aspetta di trovare nulla. Alla speranza smodata, come È naturale, successe un'eccessiva depressione. La certezza che un qualche scaffale d'una qualche esagono celava libri preziosi e che questi libri erano inaccessibili, parve quasi intollerabile. Una setta blasfema suggerì che s'interrompessero le ricerche e che tutti gli uomini si dessero a mescolare lettere e simboli, fino a costruire, per un improbabile dono del caso, questi libri canonici. Le autorità  si videro obbligate a promulgare ordinanze severe. La setta  sparì, ma nella mia fanciullezza ho visto vecchi uomini che lungamente s'occultavano nelle latrine, con dischetti di metallo, e debolmente rimediavano al divino disordine. Altri, per contro, cedettero che l'importante fosse di sbarazzarsi delle opere inutili. Invadevano gli esagoni, esibivano credenziali non sempre false, sfogliavano stizzosamente un volume e condannavano scaffali interi: al loro furore igienico, ascetico, si deve l'insensata distruzione di milioni di libri. Il loro nome è esecrato, ma chi si dispera per i "tesori" che la frenesia di coloro distrusse, trascura due fatti importanti.

Primo: la Biblioteca È così enorme che ogni riduzione d'origine umana risulta infinitesima.
Secondo: ogni esemplare È unico, insostituibile, ma (poiché la Biblioteca È totale) restano sempre centinaia di migliaia di facsimili imperfetti, cioè di opere che non differiscono che una sola lettera o una virgola.

Contrariamente all'opinione generale, credo dunque che le conseguenze delle depredazioni commesse dai Purificatori siano esagerate a causa dell'orrore che quei fanatici ispirarono. Li sospingeva l'idea delirante di conquistare i libri dell'esagono Cremisi: libri di formato minore del normale formato; libri onnipotenti, illustrati e magici.
Sappiamo anche d'un altra superstizione di quel tempo: parla dell'Uomo del Libro. In un certo scaffale di un certo esagono (ragionarono gli uomini) deve esistere un libro che sia la chiave e il compendio perfetto di tutti gli altri: un bibliotecario l'ha letto, ed È simile ad un dio. Nel linguaggio di questa zona si conservano alcune tracce del culto di quel funzionario remoto. Molti peregrinano in cerca di Lui, si spinsero invano nelle più lontane gallerie. Come localizzare il venerando esagono segreto che l'ospitava? Qualcuno propose un metodo regressivo: per localizzare il libro A, consultare previamente il libro B, per localizzare il libro B, consultare previamente il libro C e così all'infinito...In avventure come queste ho prodigato consumando i miei anni.

Non mi sembra inverosimile che in un certo scaffale dell'universo esista un libro totale; prego gli dei ignoti che un uomo -uno solo, e sia pure da migliaia d'anni!- l'abbia trovato e l'abbia letto. Se l'onore e la sapienza e la felicità  non sono per me, che siano per altri. Che il cielo esista, anche se il mio posto È all'inferno. Ch'io sia oltraggiato e annientato, ma che per un istante, in un essere, la Tua enorme Biblioteca si giustifichi!. Affermano gli empi che il nonsenso È normale nella Biblioteca, e che il ragionevole (come anche l'umile e semplice coerenza) vi è una quasi miracolosa eccezione. Parlano (lo so) della Biblioteca febbrile, i cui casuali volumi corrono il rischio incessante di mutarsi in altri, e tutto affermano, negano e confondono come una divinità  in delirio . Queste parole, che non solo denunciano il disordine, ma lo illustrano, testimoniano generalmente del pessimo gusto e della disperata ignoranza di chi le pronuncia. In realtà , la Biblioteca include tutte le strutture verbali, tutte le variazioni permesse dai venticinque simboli ortografici, ma non un solo nonsenso assoluto. Inutile osservarmi che il miglior volume che molti esagoni che amministro si intitola Tuono Pettinato , un altro Il crampo di gesso e un altro AxaAxaAxas Mlò . Queste proposizioni, a prima vista incoerenti, sono indubbiamente suscettibili d'una giustificazione crittografica o allegorica; questa giustificazione È verbale, e perché, ex hypothesi, già  figura nella Biblioteca.
Non posso immaginare alcuna combinazione di caratteri  Dhcmrlchtdj che la divina Biblioteca non abbia previsto, e che in alcuna delle sue lingue segrete non racchiuda un terribile significato. Nessuno può articolare una sillaba che non sia piena di tenerezze e di terrori; che non sia, in alcun di quei linguaggi, il nome poderoso di un dio. Parlare È incorrere in tautologie. Questa epistola inutile e verbosa già  esiste in uno dei trentadue volumi dei cinque scaffali di uno degli innumerevoli esagoni, e così pure la sua confutazione. (Un numero n di lingue possibili usa lo stesso vocabolario; in alcune il simbolo 'biblioteca' ammette la definizione corretta di 'sistema duraturo e ubiquitario di gallerie esagonali', ma la Biblioteca sta qui per 'pane', o per 'piramide', o per qualsiasi altra cosa, e per altre cose stanno sette parole che la definiscono. Tu, che mi leggi, sei sicuro d'intendere la mia lingua?). Lo scrivere metodico mi distrae dalla presente condizione degli uomini, cui la certezza di ciò, che tutto sta scritto, annienta o istupidisce. So di distretti in cui i giovani si prosternano dinanzi ai libri, baciandone barbaramente le pagine, senza saper decifrare una sola lettera. Le epidemie, le discordie eretiche, le peregrinazioni che inevitabilmente generano banditismo, hanno decimato la popolazione degli esagoni. Credo di aver già  accennato ai suicidi, ogni anno più frequenti.
M'inganneranno, forse, la vecchiezza e il timore, ma sospetto che la specie umana -l'unica- stia per estinguersi, che la sola Biblioteca perdurerà : illuminata, solitaria, infinita, perfettamente immobile, armata di volumi preziosi, inutile, incorrutibile e segreta. Aggiungo: infinita. Non introduco questo aggettivo per abitudine retorica; dico che non È illogico pensare che questo mondo sia infinito. Chi lo giudica limitato, suppone allora che in qualche luogo remoto i corridoi e le scale possano inconcepibilmente cessare; ciò è assurdo!!!! Chi lo immagina senza limiti, dimentica che È limitato il numero possibile di libri. Io mi arrischio a insinuare questa soluzione: la Biblioteca È illimitata e periodica. Se un eterno viaggiatore la traversasse in una direzione qualsiasi, constaterebbe alla fine dei secoli che gli stessi volumi si ripetono nello stesso disordine ( che, ripetuto, sarebbe un ordine: l'ordine).
Questa elegante speranza rallegra la mia solitudine.

La Torre di Babele, Pieter Bruegel il vecchio, 1563

Olio su tavola, 115x155cm, Kunsthistorisches Museum, Vienna

Ritratto della Marchesa Luisa Casati con levriero, Giovanni Boldini, 1908

martedì 10 gennaio 2012

Il fossato..

Improvvisamente, ebbe luogo un acceso scambio di opinioni tra il Re e ed il Capocantiere dell'mpresa incaricata di realizzare il fossato.  

mercoledì 4 gennaio 2012

La Duchessa di Marlborough, Giovanni Boldini, 1906

Ritratto di Consuelo Vanderbilt, Duchessa di Marlborough (Con suo figlio Ivor Spencer-Churchill)
Giovanni Boldini, 1906